Lo sguardo, la parola e il desiderio dell’Altro sono tre fattori fondanti la strutturazione dell’ identità soggettiva dell’essere umano.
Nel 1936 lo psicoanalista francese Jacques Lacan utilizza la metafora del riconoscimento allo specchio del bimbo per rappresentare vividamente l’assunto ” l’io è sempre nel campo dell’Altro”.
Cerchiamo di spiegare meglio questo concetto; durante la fase dello specchio, che lo psicoanalista osserva, più o meno, tra i sei e 18 mesi, avviene un passaggio nel bambino fondamentale per la sua costituzione di soggetto separato e al contempo collegato all’Altro.
Il cucciolo umano, che fonda la sua sopravvivenza fisica sulla presenza di un care-giver, all’inizio della propria esistenza si “percepisce” fuso a quest’ultimo, non esiste la consapevolezza del proprio corpo come unità a sé stante: è un tutt’uno con il corpo dell’individuo che se ne occupa.
Accade ad un certo punto che il bimbo in braccio al care-giver davanti allo specchio riconosca l’adulto che lo abbraccia, e girando lo sguardo verso di lui inizia a sospettate che se l’immagine riflessa dell’adulto è uguale a quella della persona reale che lo tiene in braccio, forse l’immagine del bimbo nello specchio appartenga a lui.
In questo momento si gioca molto del riconoscimento dell’Altro incarnato nel care giver del soggetto-bimbo: l’adulto volge lo sguardo verso il piccolo e gli dice: sì, sei proprio tu!
Questa scena l’abbiamo osservata frequentemente nella vita di ogni giorno non solo davanti allo specchio, ma nell’osservare le fotografie assieme ad un bimbo in cui è immortalato.
Lo Sguardo e la parola dell’altro identificano il soggetto, se vogliamo anche “rinchiudendolo” e contenendolo al contempo, in definizioni parziali che ne costituiranno parte dell’identità immaginaria con la quale il soggetto farà i conti anche in età adulta.
“Sei il mio bambino buono”, “sei la più brava”, “sarai un dottore”, “sei stupido, non ci arrivi”, “sei sempre agitata”, sono tutti esempi proiezioni di desideri, aspettative e chiavi di lettura da parte dell’Altro, che da un lato sosterranno identità del soggetto, dall’altro la inchioderanno a etichette con le quali il soggetto si rapporterà per il resto della sua esistenza, a volte senza averne troppa consapevolezza.
Quando si dice che il bambino nasce come soggetto parlato dall’Altro, si vuole intendere proprio questo.
Ci sono identificazioni inconsce che sono funzionali all’esistenza che a tratti possono ritorcersi contro al soggetto.
Prendiamo l’esempio del “sei il mio bambino buono” questa è una frase che ha un valore positivo, ma che in un determinato momento dell’esistenza potrebbe essere di intralcio al soggetto che l’ha fatta sua, credendo che essere buono lo avrebbe reso amabile dai genitori e successivamente dall’altro che incontrerà. Immaginiamo un bimbo che si è sentito ripetere questo leitmotiv fin dalla tenera età, che deve affrontare situazioni della vita in cui è essenziale potersi difendere e tirare fuori quel poco di aggressività al fine di fare valere la propria posizione. Il rischio per quel soggetto bambino-adolescente-adulto potrebbe essere quella di non riuscire ad affermare la propria identità per non disattendere l’aspettativa di bontà da parte dell’altro. Questa posizione assunta dal soggetto inconsciamente lo metterebbe nello stato di inconsapevolezza rispetto a molti obiettivi non raggiunti, e gli impedirebbe di comprendere, quale sia la causa della propria insoddisfazione, probabilmente risolvendo la questione con un retropensiero “io sono troppo buono e gli altri cattivi”, che non lo aiuterebbe a cambiare posizione e lo destinerebbe rimanere in uno stato di infelicità, di cui egli stesso è parte in causa.
La clinica mi ha presentato molti casi di persone che non riescono a prendere posizione e realizzare i propri progetti, perché sono continuamente sopraffatti dalle persone con cui si relazionano e dicono: “sono sempre fregato perché sono troppo bravo/a”.
Con questo non voglio spaventare i genitori o caregiver , inclusi gli insegnanti, rispetto al “parlare” i e ai bambini e ragazzi, anzi è bene che ci sia un desiderio verso di loro, così come è altrettanto buona cosa considerare il fatto che il legame d’amore deve permettere ai giovani soggetti di ribellarsi alle etichette esistenziali che gli sono state attribuite, se queste non gli piacciono, permettendogli di ricercare di nuove definizioni e soluzioni creative alla loro esistenza.
Questa ribellione si osserva spesso in adolescenza e talvolta in età più matura.
La domanda chi sono? e Chi voglio essere? è alla base di una possibile esistenza vivace per l’individuo umano, in cui il soggetto si senta responsabile delle proprie decisioni e scelte.
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